Mixology Vs Flair: il derby più stupido del mondo!
Per l’ennesima volta in Italia (forse anche in altri paesi, ma come sempre siamo tra i più forti quando si tratta di tirare fuori il peggio) stiamo assistendo a un fenomeno nel mondo del bar a dir poco agghiacciante.
Nella storia della miscelazione varie fasi si sono alternate, fasi dettate dalla storia, dal mercato che sempre comanda, dai gusti e dalle tendenze.
Fino a qualche anno fa ancora da noi la miscelazione era legata a ambienti della nightlife, nei quali l’eccellenza si riscontrava in un servizio basato sulla spettacolarità, drink colorati, serviti magari con movimenti acrobatici che generavano appeal. L’attenzione al singolo cliente spesso veniva trascurata, o relegata ai grandi alberghi, a scapito della preparazione simultanea di molti drink.
Il Flair era (ed è tuttora, a parer mio) un valore aggiunto non indifferente; magari la qualità dei singoli drink purtroppo veniva spesso trascurata, e lo stesso valeva per la preparazione dei nuovi bartender, a cui magari veniva piuttosto spiegato come realizzare premix, preparazioni preparate prima del servizio, in modo da rendere quest’ultimo più agevole.
In seguito, grazie a tendenze ricavate dall’estero, e a qualche pioniere che qua in Italia ha giocato un ruolo fondamentale (vedi ad esempio i ragazzi del Jerry Thomas di Roma), finalmente abbiamo assistito a una trasformazione, qualitativamente forte e intensa, del modo di concepire il bar e la miscelazione, spesso indentificata con il termine “mixology”. L’attenzione è tornata al cliente, alla qualità del drink, alle tecniche del passato e a quelle moderne, in un connubio che a livello professionale ha lanciato una bomba di proporzioni epiche.
Fin qui tutto bene. Sarebbe stato fantastico se tutto ciò fosse stato percepito come un upgrade, come una crescita, come uno stile di lavoro da affiancare e integrare a quel passato fatto di spettacolarità e organizzazione del lavoro. Ma no, non siamo in grado di fare queste cose noi. A noi piace il derby! E allora ecco qui che scatta l’”odio”: io lancio le bottiglie, sono un flairbartender, i barman che fanno della mixology il proprio cavallo di battaglia (mixologist anche se un è termine che ancora trovo di dubbia pertinenza) sono degli sfigati; o viceversa lanciare le bottiglie è inutile, quello che conta è la mixology, i drink, i clienti, e l’unico modo per soddisfare questi ultimi e’ offrirgli magari un bicchiere d’acqua quando li servo, o spremere per venti minuti gli olii essenziali d’arancia con gesti da samurai stitico.
Per fortuna questo discorso non vale per tutti, qualcuno fortunatamente ha utilizzato il suo tempo in maniera migliore, cercando di studiare, di progredire e di rendere il suo lavoro il più completo possibile indipendentemente dal flair o dalla mixology.
Tanto, comunque ognuno di noi si voglia chiamare, sempre barman siamo; al cliente interessa poco l’appellativo utilizzato, magari è più interessato a bere bene, a gustarsi un bello show acrobatico finalizzato alla preparazione del suo drink, o magari semplicemente a farsi due chiacchiere con gli amici senza doversi sorbire la mania del barman di mettersi in primo piano con la sua soggettività, sia essa flair o mixology!
Abbiamo preso forse le parti peggiori di ogni moda che è passata, piuttosto che il meglio.
Chissà cosa riserverà il futuro nel mondo del bar qui da noi; speriamo che sia possibile finalmente chiamare barman chi lavora dietro al banco, senza dispute sterili e con una costante crescita, per rendere sempre più questo lavoro una professione seria, fatta da professionisti.
(Matteo “dedde” Ciampicali, FPU Barman Academy)